A volte si è talmente abituati, da non rendersi conto dei luoghi che ci circondano.
Questo a me di solito capita a Milano, quando giro per il centro. Non mi sono mai posta l’obiettivo di andare ad esplorare la mia città come farei con una in cui metto piede per la prima volta, e di questo mi vergogno un po’. Mi dico sempre che prima o poi lo farò, ma per ora sono ancora ferma sul “poi”, e non mi muovo.
Domenica scorsa, però, ho deciso di muovermi ed andare a rivisitare un posto in cui volevo tornare da anni: Crespi d’Adda.
Crespi d’Adda è un ex villaggio operaio, soprannominato “villaggio ideale del lavoro”, in quanto fu costruito a fine Ottocento dalla famiglia Crespi intorno alla loro fabbrica tessile per ospitare gli operai della stessa e le loro famiglie. Il signor Cristoforo Benigno Crespi, originario di Busto Arsizio, creò un ambiente che potesse conciliare il lavoro, la famiglia e tutti i servizi necessari – come scuola, ospedale e cimitero, affinché i suoi dipendenti potessero svolgere le loro mansioni senza preoccupazioni; insomma, un luogo dove la vita girava intorno a quella della fabbrica e dove l’autorità dei Crespi era vista con benevolenza.
Il villaggio è una frazione del comune di Capriate San Gervaso, in provincia di Bergamo, a circa 35km da Milano. Ad oggi, la fabbrica è chiusa, le vecchie strutture dei servizi cadute in disuso sono state allestite per ospitare mostre fotografiche o enti come la Pro Loco; è possibile fare visite guidate nel paese e nella centrale idroelettrica, mentre fabbrica e villa-castello Crespi non sono accessibili. Nelle case operaie abitano ancora degli ex operai e i loro parenti.
Nel 1995 Crespi è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO in quanto «Esempio eccezionale del fenomeno dei villaggi operai, il più completo e meglio conservato del Sud Europa».
Come dicevo, erano anni che volevo tornare a Crespi d’Adda. Non solo perché la prima e unica volta che ci sono stata avevo circa 7 anni e, di conseguenza, non me la ricordavo molto, ma anche perché in questi dieci anni, ripensare a Crespi mi faceva tornare alla mente un’esperienza poco piacevole. Vi racconto.
Era estate, e avevo appena finito la scuola. Come ogni anno mi avevano iscritta al centro estivo del comune (un bellissimo posto dove giocavi tutto il giorno, ma tornavi a casa con tre chili di terra addosso a furia di scorrazzare in un giardino incenerito dal sole) e questo, settimanalmente, organizzava delle piccole gite: spesso in piscina, a volte nei parchi divertimenti o faunistici, altre volte in luoghi d’interesse; quell’anno toccò a Crespi, dal momento che gli animatori del centro inventavano storie misteriose per farci giocare e quel luogo sarebbe stato perfetto per raccontarcene altre.
Non ricordo esattamente come fossimo arrivati lì e la gita completa. Ricordo però che la villa-castello dei Crespi, sempre chiusa al pubblico, si poteva vedere con un’angolazione diversa rispetto a quella con cui si vede ora, dal momento che è circondata da mura e da alberi molto alti che ne impediscono la vista completa.
Il ricordo della villa è associato anche a parte dell’esperienza spiacevole. Quei simpaticoni – per non dire altro – degli animatori ci avevano fatto sedere di fronte al castello, e avevano iniziato a raccontarci quella che per loro era una storia adatta a dei bambini delle elementari: parlava dei bambini morti per l’epidemia, nei primi decenni del Novecento, degli incubi della signora Crespi a proposito di questo e di una presenza femminile che andava ad ucciderle il figlio neonato nella culla; la storia si concludeva con la donna che, presa dalla disperazione, si suicidava buttandosi dalla torre della residenza, infestando poi il castello con il suo fantasma, intravisto piangente e con una camicia da notte bianca.
Una storia allegra, vero? Ho avuto gli incubi per mesi, essendo rimasta sconvolta sia dalla storia sia da un’altra cosa che completava perfettamente l’atmosfera angosciante creatasi: il cimitero.
Il cimitero di Crespi d’Adda è veramente affascinante, se si può usare quest’aggettivo per descrivere un luogo comunque sacro e da rispettare. Elemento predominante è il mausoleo della famiglia Crespi, di forma piramidale, che spicca già a centinaia di metri di distanza mentre si percorre il viale alberato che collega il paese con il camposanto.
Ciò che dieci anni fa fece ulteriormente credere a una povera bimba di 7 anni (e compagni) alla storia furono due particolari del cimitero: le tombe dei bambini e la statua di donna che sovrasta il mausoleo.
Appena entrati nel cimitero, infatti, la cosa che sorprende è la quantità di piccole lapidi, con incisi – anche se molti non sono più leggibili – nomi e date di nascita e morte di bambini che spesso non superavano l’anno di età. Questo perché durante gli anni Venti e Trenta una brutta gastroenterite fece svuotare moltissime culle degli abitanti di Crespi.
Personalmente, un cimitero con più bambini che anziani mi mette una tristezza infinita. La morte è un aspetto inevitabile, e finché una persona ha vissuto la propria vita (ho visto la tomba di una signora di ben 107 anni, nata nel 1900 e morta nel 2007) la reputo accettabile. Vedere così tanti neonati, invece, morti di una malattia di cui ormai morire è difficile, almeno in questa parte di mondo, dà molto da pensare e fa venire davvero una forte amarezza.
Tornando alla storia di dieci anni fa, la statua di donna seduta posizionata al centro del mausoleo aveva confermato a me e agli altri bambini il racconto degli animatori sulla signora Crespi. Prima di tornarci domenica, il mio ricordo era leggermente stato influenzato dalla fantasia, e mi immaginavo avesse i capelli in aria (in stile Medusa con i serpenti).
Fortunatamente, sono stata smentita appena entrata nel cimitero, avendo anche visto che la statua non è una sola, ma tre, ciascuna per lato; le tre sculture, infatti, rappresentano le virtù teologali (fede, speranza e carità).
Con questa nuova visione, il brutto ricordo di Crespi d’Adda è scomparso; al suo posto, ora se n’è creato uno davvero bello, dopo aver visto la vitalità della cittadina in una domenica d’inverno. Era pieno di gente che passeggiava tranquillamente per le strade, sia nella via principale, che sul lungofiume; famiglie con i bambini, gruppi di amici, visitatori curiosi, fotografi e anche persone che facevano jogging. Gruppi di vecchietti e familiari infreddoliti chiacchieravano dentro ai due bar del paese, mentre intorno la vita continuava a scorrere sulla strada.
Crespi d’Adda non è un paese morto. Piccolo si, anziano forse, un po’ cupo, soprattutto nelle giornate grigie e nebbiose, di certo affascinante, ma abbandonato no, e con un piacevole aspetto tutto da scoprire.
È un villaggio misterioso? Sì, direi di si. Molte sono le leggende – già più simpatiche di quella raccontata – che circolano a proposito di fantasmi e presunti riti satanici, sulla fabbrica chiusa e sul cimitero isolato.
Eppure penso sia l’insieme di tutto questo a rendere così speciale Crespi: le casette squadrate, le costruzioni scolorite, i suoi pochi ma fedeli abitanti, la malinconia della sua storia ed i suoi miti reconditi.
Sarà la mia prossima tappa in moto.
E’ vero che la storia di Crespi d’Adda è un pò malinconica e i racconti che ti hanno fanno da bambina sui fantasmi e bambini morti non aiutano, però il concetto di villaggio operaio era avanguardista. io ci torno sempre volentieri
Infatti, alla fine mi è piaciuto molto e mi ha affascinato!